01 luglio 2022

Diabetologia, Ematologia

Prof. Andrea Mosca


È noto da tempo che l’emoglobina glicata si forma per interazione tra il glucosio e le valine amino-terminali di una o di entrambe le catene b dell’emoglobina A. Pertanto la quantità di HbA1c che si forma dipende dai livelli della glicemia media e dalla vita eritrocitaria, che notoriamente si stima essere attorno a 120 giorni. Come noto infine, risalgono agli anni ‘80 i primi studi che hanno dimostrato che la HbA1c riflette la glicemia media di un periodo di due o tre mesi antecedenti al prelievo di sangue.

Rispetto alla glicemia a digiuno ed al carico orale di glucosio, la misura della HbA1c ha decisamente una serie di vantaggi pratici e tecnici, soprattutto legati al fatto di una minore variabilità intra-individuale ed anche ad una maggiore robustezza nei confronti della iperglicemia da stress. Però bisogna sempre ricordare che l’emoglobina glicata non è una misura diretta della glicemia media e che esistono vari fattori che potenzialmente possono interferire sull’entità della glicazione, come nel caso di pazienti in emodialisi, di donne in gravidanza, di persone appartenenti a certe etnie ed in presenza di anemia emolitica o di alcune varianti emoglobiniche.  

I primi a caratterizzare da un punto di vista biochimico la cinetica di glicazione della emoglobina A   sono stati i ricercatori del gruppo di Franklin Bunn negli anni ‘70. Sono loro ad aver caratterizzato questa reazione che classicamente procede in due fasi, la prima, reversibile, che porta alla formazione della base di Schiff e la seconda, praticamente irreversibile, che produce la chetoamina. I tempi di dimezzamento (t1/2) della velocità di reazione della prima fase sono dell’ordine di 8 minuti, mentre quelli della seconda sono attorno a 5 giorni.

Da allora la cinetica di glicazione non è più stata studiata, forse anche per intrinseche difficoltà sperimentali legate all’uso di radioisotopi. Tuttavia l’argomento non è caduto nel dimenticatoio e lo sviluppo di nuove tecnologie in spettrometria di massa ha permesso di riprendere a studiarla.

In presenza di varianti emoglobiniche ci si può quindi chiedere se la cinetica o l’entità della glicazione sia identica a quella dell’emoglobina A, oppure sia variata. Ovviamente, se si venisse a scoprire che la cinetica, ad esempio, si accelera, allora evidentemente non varrebbe più l’assunto che l’HbA1c rifletta un periodo di glicemia pari a due-tre mesi antecedenti al prelievo, ma, verosimilmente, rifletterebbe un periodo più breve.

In uno lavoro pubblicato lo scorso anno da un gruppo di ricercatori cinesi sono state studiate l’entità di glicazione di due varianti emoglobiniche abbastanza diffuse in Asia, esattamente la HbG-Coushatta e l’HbG-Taipei. Entrambe hanno la mutazione nella posizione 68 della catena b.

I risultati ottenuti, analizzando il sangue di oltre 30 portatori eterozigoti di queste varianti (che da un punto di vista clinico sono assolutamente silenti) ed applicando la cromatografia liquida abbinata a spettrometria di massa tandem, hanno dimostrato che l’entità di glicazione di queste due varianti emoglobiniche, nelle loro rispettive globine b, era circa del 10% più alta rispetto ai soggetti wild type, cioè agli omozigoti di emoglobina A. Tuttavia, considerando che allo stato eterozigote queste varianti erano presenti attorno al 40 % del totale delle emoglobine eritrocitarie, l’entità totale di glicazione non era significativamente diversa da quella dei soggetti omozigoti HbAA, e quindi questo fatto non avrebbe potuto cambiare l’interpretazione clinica del risultato dell’esame.

Personalmente penso che il metodo messo a punto dai ricercatori cinesi sia valido e riproducibile e che quindi questa opportunità potrebbe essere utile in presenza di altre varianti emoglobiniche. Per concludere infine, e per tranquillizzare i lettori, ricordo che il tasso di glicazione delle più comuni varianti emoglobiniche (HbS, HbC, HbD ed HbE) nei rispettivi portatori eterozigoti, non è diverso da quella della HbA.