30 maggio 2022

Diabetologia

Prof. Andrea Mosca


Chi si occupa di diabete sa bene che per la valutazione del controllo glicemico si ricorre alla glicemia a digiuno, alla glicemia post prandiale, alla HbA1c ed anche alla variabilità glicemica. Quest’ultima è diventata un parametro molto concreto da quando la glicemia si può valutare praticamente in continuo (Continuous Glucose Monitoring, CGM), mediante i sensori di glicemia che si possono applicare in diverse parti del corpo, generalmente sulla parte alta del braccio, e che forniscono una notevole quantità di dati andando a rilevare la glicemia per un periodo di tempo di un paio di settimane. La letteratura scientifica è ricca di testimonianze che aiutano, con tale strumento, a ottimizzare i target glicemici a seconda dei pazienti.

Ma per quanto riguarda l’HbA1c i dati disponibili sono pochi. A differenza della variabilità glicemica valutata come prima ricordato, quindi su una finestra temporale piuttosto breve, la variabilità della HbA1c meglio esprimerebbe le fluttuazioni glicemiche che possono avvenire nel corso di mesi o anni.  Uno dei lavori più interessanti è quello offerto da un gruppo di ricercatori cinesi che ha valutato l’impatto della variabilità di questo parametro sul rimodellamento subclinico del ventricolo sinistro in relazione all’aumento del rischio di insufficienza cardiaca (Li et al, Clin Chim Acta 2020;502:159-66). È infatti noto che l’instabilità glicemica conferisce un rischio di prognosi negativa nei pazienti con diabete di tipo 2, e che le complicanze cardiache si manifestano nel corso degli anni. Nello studio sono stati arruolati oltre 450 pazienti con diabete di tipo 2 con struttura cardiaca normale e seguiti in maniera prospettica per circa cinque anni. L’HbA1c veniva misurata quattro volte all’anno e da questi dati si calcolava la media intrapersonale con relativa deviazione standard (SD-HbA1c), che quindi veniva valutata con un indicatore di variabilità della glicata medesima. L’analisi statistica effettuata con un modello di regressione multiparametrica ha dimostrato che la deviazione standard dell’HbA1c era associata in maniera indipendente con i cambiamenti del diametro finale diastolico del ventricolo sinistro, del setto interventricolare, della parete posteriore del ventricolo sinistro ed in altri indici cardiaci. Un’ulteriore analisi effettuata quindi in sottogruppi di pazienti in base ai valori medi di HbA1c (<7,0 %, 7,0-7,5 % e ³7,5 %) ha ulteriormente confermato che la SD-HbA1c era associata con la maggior parte degli indicatori cardiaci ecocardiografici prima citati, indipendentemente dal valore medio della glicata medesima. Personalmente ritengo che questo studio, anche se non scevro da alcune limitazioni quali la presenza di fattori di rischio non conosciuti, la natura osservazionale del disegno sperimentale e la limitazione ad un solo tipo di etnia, abbia un rilievo importante. Mi aspetto quindi che altre valutazioni simili possano essere presto effettuate anche nelle casistiche caucasiche.


Peraltro la variabilità dell’HbA1c era già stata messa in causa in associazione all’aumentato tasso di mortalità nei pazienti con diabete di tipo 2, sia in Giappone che in Europa, che negli Stati Uniti, anche in associazione ai valori di pressione sistolica. Ed è anche noto che la iperglicemia intermittente provoca un rilascio di specie reattive dell’ossigeno, di citochine infiammatorie, induce una disfunzionalità mitocondriale ed apoptosi in tasso maggiore rispetto a una iperglicemia cronica. È anche stato dimostrato che la variabilità della emoglobina glicata è un predittore potente degli episodi di ipoglicemia che richiedono la ospedalizzazione dei pazienti diabetici. 

In conclusione penso che a livello post-analitico il laboratorio possa offrire strumenti per valutare la variabilità intra-individuale dell’HbA1c, non solo in termini di deviazione standard e stimolare una serie di azioni utili per il miglioramento della salute del paziente diabetico. Ritengo inoltre che poter depositare tali informazioni nel fascicolo elettronico di ogni singolo paziente potrebbe dare un notevole valore aggiunto al ruolo della medicina di laboratorio, per altro a tutti gli effetti già presente insieme alle altre discipline mediche, nella gestione della salute umana.